Il giallo italiano

Forse non tutti sanno che il termine “giallo” per indicare il genere poliziesco viene usato solamente in Italia. Nasce nel 1929 grazie ad una storica collana di narrativa dedicata al poliziesco, pubblicata dalla Arnoldo Mondadori Editore: Il Giallo Mondadori, i cui libri avevano (ed hanno tuttora) una inconfondibile copertina di colore giallo.

La copertina de Il sette bello
Il giallo scritto da autori italiani nasce in ritardo rispetto alle esperienze straniere, e cioè verso la fine degli anni Venti, quando il positivismo ha già mostrato i suoi limiti e la fiducia nel metodo scientifico e nelle sue possibilità di applicazione si è affievolita.
Nei romanzi di Alessandro Varaldo, considerato il primo autore poliziesco italiano, la casualità assume un ruolo preponderante. Ne Il sette bello (1931), primo testo poliziesco dell’autore, il protagonista, il commissario Bianchi dice che “la ragione è umana, e quindi relativa” , mentre al contrario “il caso è l’alito della provvidenza, è quella tal bava di vento che spira da quella tale insenatura e che gonfia la vela a chi cerca aiuto bordeggiando” .

In un certo senso si può dire che il giallo all’italiana nasca semiforzosamente: il suo inserimento nel mercato librario è sollecitato nel 1931 durante il fascismo da una delibera del Ministero della Cultura Popolare[1] nella quale si dispone che almeno il 20% dei titoli inseriti in ciascuna collana pubblicata in Italia debba essere di un autore italiano. La direttiva pone un effettivo problema agli editori, soprattutto alla maggiore collana di polizieschi, proprio quella dei “Libri Gialli Mondadori” , che ha da poco iniziato le sue pubblicazioni e che si trova così costretta a inserire autori italiani tra i titoli pubblicati. Autori che fino ad allora si erano dedicati a tutt’altro (Varaldo, Lenoncita, Spagnol, D’Errico) cominciano quindi, più o meno volontariamente, a scrivere libri gialli.
La censura fascista pone però altri vincoli. Il fascismo guarda da sempre con sospetto la letteratura poliziesca, che è accusata di corruzione morale, di confondere il bene con il male rendendo simpatico il colpevole, di dileggiare la polizia mettendone in forse l’autorità, ma soprattutto mette in discussione la propaganda di regime che promuove un’immagine dell’Italia ordinata e onesta, dove non è possibile commettere crimini.
Si vieta dunque di mettere in ridicolo la figura del poliziotto (come spesso fanno Poe e Conan Doyle con i loro detective), si raccomanda che l’assassino debba essere preferibilmente straniero (per non diffamare il popolo italiano) e soprattutto che debba essere sempre scoperto, arrestato e punito.

Inoltre, come nota Tito Aldo Spagnol nel 1935:

...è solo merito della procedura penale anglosassone se esiste il romanzo poliziesco, specialità inglese e americana. Con la nostra procedura, i romanzieri avrebbero poco da esercitare la loro fantasia, giacché da noi, appena si sospetta qualcuno, lo si mette in prigione, e allora addio intreccio romanzesco

Tito Aldo Spagnol, La bambola insanguinata, De Bastiani Editore, 1999

Infine, il carattere ancora prevalentemente contadino della società italiana rende il poliziesco difficile da contestualizzare: il poliziesco era nato proprio nel contesto delle città dopo la rivoluzione industriale. A questo proposito Augusto De Angelis, uno dei principali autori del tempo e creatore del personaggio del commissario De Vincenzi scrive nel 1939:

Da noi manca tutto, nella vita reale, per poter congegnare un romanzo poliziesco del tipo americano o inglese: mancano i detectives, mancano i policemen, mancano i gangsters, mancano persino gli ereditieri gracili e i vecchi potenti di danaro e di intrighi disposti a farsi uccidere. Non mancano – sebbene in scala ridotta – pur troppo i delitti. Non mancano le tragedie. Perché non considerare tali ineluttabili fenomeni della vita sociale come materia di vita umana, come materia di indagine artistica? [...]

L’essenziale per me è creare un clima. Far vivere al lettore il dramma.

Augusto De Angelis, Il romanzo giallo: confessioni e meditazioni in Le sette picche doppiate, Sonzogno, 1940

Poiché in quel periodo mancavano nella società italiana gli elementi per creare dei polizieschi alla moda straniera, De Angelis cercò di creare un tipo particolare di giallo, il giallo di “clima” italiano, basandosi sulla vita reale italiana.

La città: Milano, percorsa nelle sue strade e nei suoi luoghi autentici. Gli interni: appartamenti, circoli, alberghi, portinerie, botteghe artigiane, mercati, fiere, ditte industriali, uffici, banche. I personaggi: capitani d’industria e banchieri di un capitalismo, come quello nazionale, non del tutto moderno, signore aristocratiche nullafacenti, viaggiatori; e giù di lì massaie, commesse, il proletariato urbano fatto di garzoni camerieri e portinai, il caratteristico ceto medio impiegatizio; ma soprattutto poliziotti all’italiana, a tratti prepotenti, a tratti burocratici, a tratti paternalisti. Su tutti il perfetto protagonista di De Angelis, il commissario De Vincenzi, anche lui un classico italiano. Un tipo di alto funzionario che si incontra ogni tanto negli uffici dissestati: intelligente, sensibile e pensoso, dotato di una cultura raffinata e incongrua al ruolo statale, scettico soprattutto su se stesso, che continuamente si domanda «ma perché ho fatto il poliziotto?» ma poi capace delle migliori performance, grazie proprio al suo essere diverso dai colleghi. [...]

Il banchiere assassinato (anno 1935) è il primo romanzo della serie di De Vincenzi si apprende subito il vero interesse, la poesia, e le letture un po’ eccentriche per un poliziotto del Ventennio. Tra di esse Freud. E ciò preannuncia il suo sommo strumento investigativo: l’intuizione psicologica e l’osservazione dell’involontario da cui emerge l’indizio segreto.

Dalla introduzione a Il banchiere assassinato, Sellerio, 2009